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SCHIAVITÙ
Istituzione sociale, spesso regolata da apposite
norme pubbliche in sistemi socioeconomici che si fondano su di essa (schiavismo),
consistente in forza di lavoro priva di personalità giuridica e
civile detenuta in proprietà privata o pubblica a scopi produttivi
e riproduttivi (schiavi). Ha origini antichissime in quanto se
ne trova traccia in tutte le fonti scritte più antiche. Mistificata
dal pregiudizio etnico che considera gli "altri" inferiori (già
Platone e Aristotele teorizzavano che la condizione servile fosse connaturata
ai "barbari"), soprattutto se sconfitti in guerra, la riduzione in schiavitù
veniva operata appunto con la cattura di prigionieri e la razzia di donne
e bambini. Non necessariamente essa comportava l'indifferenza ai valori
dei rapporti umani, ma sempre la disponibilità assoluta, dal diritto
di compravendita fino a quello di vita o di morte. Poco diffusa nell'antica
Grecia, per quanto in aumento con la nascita dell'impero ateniese, in
età ellenistica aveva un mercato (Delo ne era uno dei centri principali)
che prevedeva un prezzo minimo di 50 dracme a capo, che poteva decuplicarsi
per un buon operaio o centuplicarsi per tecnici e amministratori. Le condizioni
di vita erano pessime nelle miniere e nelle campagne, migliori in città
e nelle case aristocratiche, dove gli schiavi erano più numerosi.
Già i greci prevedevano diritti che tra i romani divennero molto
nitidi, quali l'appartenenza alla famiglia come comunità religiosa,
la possibilità di riscatto e la manomissione, ossia la liberazione
come dono o premio o eredità. In Roma, dove in un primo tempo la
vita dello schiavo fu assai più dura che in Atene, si pagavano
mille sesterzi per uno schiavo qualsiasi, 500.000 per un eunuco, 700.000
per uno che sapesse leggere, scrivere e far di conto. Molti schiavi di
Roma, provenienti in massima parte dall'oriente, erano infatti specializzati
e talvolta esercitavano delicate professioni come quelle di scrivano,
medico e amministratore. Ma la maggior parte faticava sotto la sferza
nei latifondi, mentre i più forti e arditi finivano nei circhi
come gladiatori (Spartaco). La schiavitù
decadde nell'impero romano per il concorrere di vari fattori, non ultimo
la stessa potenziale abbondanza di schiavi, ma soprattutto per la crescente
difficoltà per i singoli proprietari di mantenerne in numero sufficiente
alla conduzione delle terre, per la quale subentrarono altri rapporti
come la servitù, l'affitto, la colonia, mentre i servi dominici
venivano riservati alle più delicate cure domestiche. Anche la
diffusione dello stoicismo contribuì a rendere inviso l'istituto,
certo più di quella del cristianesimo, il quale considerava la
schiavitù perfettamente legittima se applicata a non cristiani:
un atteggiamento che persistette nella Chiesa cattolica anche per l'apporto
culturale germanico, codificato nel Pactum Lothari (840), nel quale
rientrava l'ammissibilità della schiavitù in termini identici
a quelli platonici e aristotelici. L'Editto di Rotari (643) prevedeva
per i signori longobardi servi ministeriales o homines manuales
per le incombenze maggiori; per essi l'eventuale guidrigildo
era particolarmente salato. Provendari (cioè forniti del
necessario per vivere) continuarono pure a lavorare nelle fattorie per
almeno altri due o tre secoli, in parte discendenti dagli schiavi romani
o germanici e in parte oggetto di un commercio sempre fiorente nel Mediterraneo,
alimentato da ebrei, arabi e, almeno dal IX secolo, veneziani, che, importandone
di slavi, contribuirono all'adozione del termine moderno. Il commercio
destinato alle città non s'interruppe neppure dopo la rivoluzione
agraria successiva al Mille. Dal XIII secolo esso trasse vigore dalla
recente necessità di guardie del corpo e di personale di fatica
delle più prosperose famiglie europee, rifornite, tramite veneziani
e genovesi, dai razziatori turchi e mongoli nei porti del mar Nero e,
in quelli della costa mediterranea dell'Africa, dai berberi, tramite anche
provenzali e catalani. Dal XV secolo questi furono emarginati dall'intraprendenza
portoghese che andò a rifornirsi direttamente sulle coste atlantiche:
per più di un secolo Lisbona fu il massimo mercato schiavistico
d'Europa. Ma solo con l'introduzione della piantagione in America la schiavitù
tornò ai fasti del vero e proprio schiavismo. Gli indigeni non
reggevano alla fatica, gli europei deportati a forza erano troppo pochi:
la tratta negriera, cioè degli schiavi dall'Africa, divenne un
elemento fondamentale del commercio triangolare
e quindi dell'economia sia americana sia europea. Essi furono importati
dal 1501 nelle colonie spagnole (in monopolio regio: il re cattolico lucrava
fortissimi guadagni dal commercio concesso al fiammingo La Bresa), poi
in Brasile con modalità analoghe, anche su sollecitazione di padre
Bartolomé de Las Casas (1514), che temeva lo sterminio degli indios,
e contro l'opposta preoccupazione della chiesa, che vedeva nell'importazione
africana una concorrenza al proselitismo. I britannici fecero poi la parte
del leone. Si calcola che alla fine del XVIII secolo in America vi fossero
circa tre milioni di schiavi. La Rivoluzione francese ne mise in moto
il riscatto. La colonia francese di Haiti fu il primo paese d'America
a raggiungere l'indipendenza proprio grazie a una grande rivolta di schiavi
neri e mulatti, guidati dal "giacobino nero" Toussaint L'Ouverture (1793).
Ma la strada per l'abolizione della schiavitù fu poi ancora lunga
e insanguinata (abolizionismo).
G. Petrillo
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